Mónica Cristina Benaroyo Pencu: una uruguaya assassinata dalla dittatura cilena
Soledad amiga y hermana. Empujones para avanzar y abrir brechas, para construir puentes que perfuman a oriente, a culturas distintas a raices mojadas pero jamás olvidadas. Soledad peregrina por tierras extranjeras, obligada al viaje, rosales florecidos, plegaria silente y alma en tormenta. Vuelen jilguerillos, petirojos y canarios entonando melodías antiguas, recorriendo lugares de la infancia, fotos amarillentas de una felcidad desvancecida. Soledad cruzando la maldad que distingue mi época, montañas y desiertos, ciudades y poblaciones. No hay paz no hay descanso. Los días se mezclan y se anudan creando un ovillo de colores múltiples, calidoscopio con el que mirar a esta sociedad disgregada, pulverizada, hecha ceniza por un poder que anula las existencias de los que no se dejan subyugar. No existen cadenas ni jaulas que `puedan arrestar nuestro pensamiento libre, nuetras ganas de cambiar lo que existe construyendo belleza donde ahora hay la colonización de la fealdad y del sucio. Soledad, entre otras emociones escogí a usted como compañera, callada mujer, palabras guardadas como tesoro precioso. Riendo a carcajadas, himnos retumban en el altipiano, charangos y zampoñas componen músicas suaves y al mismo tiempo revolucionarias. Soledad, armadura brillante pero abollada por los golpes de la vida, escudo defensor de mi sagrada interioridad. Frondas de árboles danzan las danzas de los ancestros, temblores de pasos y de hojas, inquietudes dibujando senderos a veces quebrados pero que vale la pena atravesar. Yo misma me comvierto en calle, en granitos de arena, en veredas, en pasajes. Me transformo en árbol, en viento, en semillas, en pasto. Una voz del pasado que se hace presente, cotidiano. Espera sin fin. Soledad hermana desarrollando miles de luchas, involucrada y cómplice de aventuras sin suerte, triste consoladora de deseos destrozados. Te añoro, te busco, te extraño apenas te alejas. Eres mi soledad, amiga, hermana, compañera. Jilguerillo, himno, charango, árboles, desierto y zampoña.
Me llamo Mónica Cristina Benaroyo Pencu soy de origen persa aunque viví la mayoría de mi vida en Uruguay. Me fui a Chile poco tiempo antes del golpe soñando con trasladarme a Cuba y empezar allá mi nueva vida. Llené un baúl de aspiraciones, utopías, proyectos y planes y me puse en marcha cruzando los Andes. Soy una mujer comunista. Aquel 11 de sptiembre de 1973 estalló el infierno en Chile y los milicos me aprehendieron borrando mi rastro para siempre. Me llevaron al desierto de Arica, ciudad en la que vivía, me sepultaron dejando afuera solo mi cabeza y empezaron a golpearla con patadas hasta quitarme la vida. Mi cuerpo sin cabeza apareció muchos años después con mi ropa intacta. Me hicieron desaparecer pero el desierto devolvió mi restos para que alguien pudiera relatar mi historia y recordarme.
Soledad tierra del destierro, final cruel, acaricio la esperanza de futuras memorias. Me imagino reina y guerrera. Figuro gratos días en Cuba que nunca puedo vivir. Soledad promesas y consuelo. Yo hija, yo chiquilla, yo mujer y los ideales a pintar un mundo mejor. Soledad recuerdos de la que fui y de la que sigo siendo. Soledad, paño rojo que nunca se cansa de flamear. Arena, desierto árido, dolor y olvido. Paño rojo sanador de heridas olvidadiza. Soledad y yo me quedo acá unida a la sangre y a la arena de Chile.
(Solitudine amica e sorella. Spinte ad avanzare e ad aprire varchi, a costruire ponti che profumano d’Oriente, di culture diverse, di radici bagnate ma mai dimenticate. Solitudine pellegrina attraversando terre straniere, costretta a viaggiare, cespugli di rose in fiore, preghiera silenziosa e anima in tempesta. Cardellini, pettirossi e canarini volano cantando antiche melodie, visitando i luoghi dell’infanzia, foto giallastre di una felicità svanita. Solitudine che attraversa il male che contraddistingue il mio tempo, montagne e deserti, città e paesi. Non c’è pace, non c’è riposo. Le giornate si mescolano e si annodano creando un gomitolo dai molteplici colori, un caleidoscopio con cui guardare questa società disgregata, polverizzata, incenerita da un potere che annulla le esistenze di chi non si lascia soggiogare. Non esistono catene o gabbie che possano arrestare il nostro pensiero libero, la nostra voglia di cambiare ciò che esiste, costruendo bellezza dove ormai c’è la colonizzazione del brutto e dello sporco. Solitudine, tra le altre emozioni ho scelto te come compagna, donna silenziosa, parole custodite come un tesoro prezioso. Risate a crepapelle, inni risuonano nell’altipiano, charangos e zampogne compongono musiche soavi e allo stesso tempo rivoluzionarie. Solitudine, armatura lucente ma ammaccata dai colpi della vita, scudo difensivo della mia sacra interiorità. Le fronde degli alberi danzano le danze degli antenati, tremori di passi e foglie, inquietudini disegnano sentieri a volte interrotti ma che vale la pena percorrere. Io stessa divento strada, granelli di sabbia, marciapiedi, passaggi. Mi trasformo in albero, vento, semi, erba. Una voce dal passato che diventa presente, quotidiano. Attesa infinita. Solitudine sorella alle prese con mille lotte, coinvolta e complice di avventure senza fortuna, triste consolatrice di desideri infranti. Ti desidero, ti cerco, mi manchi appena te ne vai. Sei la mia solitudine, amica, sorella, compagna. Cardellino, inno, charango, alberi, deserto e zampogna.
Mi chiamo Mónica Cristina Benaroyo Pencu, sono di origine persiana anche se ho vissuto la maggior parte della mia vita in Uruguay. Sono andata in Cile poco prima del colpo di stato, sognando di trasferirmi a Cuba e iniziare lì la mia nuova vita. Ho riempito un baule di aspirazioni, utopie, progetti e piani e mi misi in marcia attraversando le Ande. Sono una donna comunista. Quell’11 settembre 1973 in Cile scoppiò l’inferno e i soldati mi arrestarono cancellando per sempre le mie tracce. Mi portarono nel deserto di Arica, la città dove abitavo, mi seppellirono, lasciando fuori solo la mia testa, e cominciarono a prenderla a calci fino a togliermi la vita. Il mio corpo senza testa riapparve molti anni dopo con i vestiti intatti. Mi hanno fatto sparire ma il deserto ha restituito i miei resti perché qualcuno potesse raccontare la mia storia e ricordarmi.
Solitudine terra d’esilio, fine crudele, accarezzo la speranza di future memorie. Mi immagino regina e guerriera. Mi figuro giorni piacevoli a Cuba che non potrò mai vivere. Solitudine, promesse e conforto. Io figlia, io bambina, io donna e gli ideali per dipingere un mondo migliore. Solitudine, ricordi di ciò che ero e di ciò che sono ancora. Solitudine, uno straccio rosso che non si stanca mai di sventolare. Sabbia, deserto arido, dolore e oblio. Straccio rosso guaritore di ferite dimenticate. Solitudine ed io rimango mischiata al sangue e alla sabbia del Cile.)
Mónica Cristina Benaroyo Pencu nacque a Bucarest in Romania nell’aprile del 1925. Aveva una sorella maggiore Fernanda. Erano figlie dell’ambasciatore dell’Iran (allora Persia) nella capitale rumena, ma dovettero emigrare quando, dopo la Seconda guerra mondiale, russi e inglesi sconfissero lo Sha Reza Khan. “Monique”, come la chiamavano i suoi amici e conoscenti divenne legalmente cittadina uruguaya nel 1954. Emergeva per aver conosciuto il mondo grazie al fatto di essere figlia di diplomatici. Parlava sei lingue, oltre al persiano paterno e al rumeno materno: inglese, italiano, francese, tedesco e spagnolo. La sua competenza con le lingue straniere le permise di trovare lavoro al telegrafo Italcabe di Montevideo, dove lavorò fino al 1973. Negli anni sessanta iniziò gli studi nella facoltà di Scienze Umane, dove ottenne la laurea in filosofia nella cattedra del professor Emilio Oribe. “Sono persiana”, così si presentava quella donna piccola, dai capelli ricci che vestiva diversamente dagli universitari dell’epoca. Non tardarono a battezzarla affettuosamente “la persiana”. La sua solitudine nei ricordi dei compagni, era attraversata da una triste malinconia, anche se era allegra e con un buon senso dell’umorismo. Quella Università degli anni sessanta finì per trasformare quella giovane donna proveniente da una classe sociale alta e più grande dei suoi compagni di studio, in una intellettuale di sinistra. Un documento della Dirección Nacional de Información e Inteligencia (DNII) testimoniava la sua iscrizione al Partito Comunista dell’Uruguay nell’ottobre del 1971.
Vinse un concorso di monografie sulla vita di Che Guevara e ottenne una borsa di studio di alcuni mesi all’Universidad de La Habana. Quella realtà rafforzò i suoi ideali e fu con l’intento di tornare a Cuba che si trasferì in Cile, paese che manteneva buone relazioni diplomatiche con l’isola, per poi prendere un aereo che la portasse a La Habana. Prima di arrivare in Cile lavorò come traduttrice a Buenos Aires. La situazione politica in Uruguay e un allontanamento della sorella che nel frattempo si era sposata con un diplomatico la portarono a viaggiare all’estero, secondo altre versioni. Vendette tutti i mobili dell’appartamento in cui viveva in 25 de Mayo, con poco denaro e un baule pieno di sogni attraversò la Cordigliera delle Ande. Ma a Santiago i suoi sogni s’infransero. Ci furono dei malintesi e visse nella Casa del Maestro nella capitale cilena aspettando conferme di un invito da La Habana che non arrivò mai. Dovette, così, trovare lavoro in una azienda di Arica, città nella quale si trasferì e in cui poi iniziò a lavorare nelle attività culturali della municipalità.
La donna venne arrestata dopo il golpe civico-militare dell’11 settembre 1973 e nei suoi confronti venne emesso un decreto di espulsione. Poi si persero le sue tracce fino al 2008 quando un cadavere senza testa e mummificato apparve nel deserto di Arica. Fu seppellita viva lasciando solo la testa fuori e decapitata a calci. Vestiva un jeans, un poncho, una maglietta di cotone e dei sandali e aveva ancora con sé un pacchetto di sigarette Hilton ancora sigillato.
Il suo corpo nel 2010 venne restituito all’Uruguay.
¡NI PERDÓN NI OLVIDO!
¡HONOR Y GLORIA ETERNA! Chantal Castiglione