Partiamo da qui. Articolo 36 della Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e il contrasto alla violenza di genere, adottata nel 2011 dal Consiglio d’Europa ed entrata in vigore il primo agosto 2014. “Il consenso deve essere dato volontariamente, quale libera manifestazione della volontà della persona, e deve essere valutato tenendo conto della situazione e del contesto”. Eppure, ancora oggi sia nelle aule di Tribunale, sia nelle prime pagine di giornale, si continuano a sminuire i casi di violenza subiti dalle donne, che dal ruolo di vittime spesso passano per “colpevoli”. Non ultimi i casi che hanno riguardato Leonardo La Russa, figlio del presidente del Senato, oppure l’ormai famosa palpata di “soli” dieci secondi, che secondo i giudici del Tribunale di Roma, sono troppo pochi per configurare “l’intento libidinoso o di concupiscenza” per cui si possa identificare come molestia sessuale.
C’è sempre un confine sottile tra il corpo di una donna e il suo libero consenso. Questo limite viene spesso oltrepassato, non solo dagli uomini molestatori e violenti ma anche dall’opinione pubblica. A distanza di 36 anni dalla morte di Roberta Lanzino, giovane cosentina di 19 anni, uccisa a seguito di uno stupro, in circostanze tuttora non molto chiare, abbiamo provato a fare chiarezza su questo tema con le attiviste e operatrici del cav, Centro antiviolenza di Cosenza che porta proprio il suo nome.
“La maggior parte delle donne che arrivano da noi sono distrutte”, spiega Roberta Attanasio, presidente del centro, che fa parte del network nazionale D.i.Re, donne in rete contro la violenza. “Quando varcano le porte del cav hanno perso quasi tutto, famiglia, identità, casa, lavoro. Il nostro compito è quello di rimetterle al mondo, attraverso un percorso di consapevolezza in cui finiamo per evolvere tutte insieme. E così impariamo tutte aspetti sempre nuovi di noi stesse”.
Per le attiviste del cav la lotta contro la violenza di genere è una questione prevalentemente culturale, di cui sono un riflesso le sentenze emesse, in Italia, dai giudici e dalle giudici. Non è una questione di sessismo che riguarda solo gli uomini, sottolinea Chiara Gravina, avvocata del Cav e attivista in prima linea su questo fronte. “Spesso, infatti, sono anche le giudici a emettere sentenze intrise di patriarcato e doppiamente colpevolizzanti per le vittime di violenza”. Questo ci fa capire quanto ancora culturalmente si sia permeati da una visione del mondo viziata, che fa fatica a riconoscere la violenza, perché per secoli è stata considerata “normale”. “D’altronde – aggiunge l’avvocata – anche il concetto di consenso è nuovo per la nostra cultura. Basti pensare, alla storia più recente e ai soprusi subiti, nel tempo, dalle donne come i così detti matrimoni combinati e tanti altri atteggiamenti di violenza economica, fisica e psicologica, tollerati e considerati normalità”.
Se analizziamo, per esempio, il caso di Carol Maltesi, giovane donna di 26 anni “rea” di aver lasciato il suo compagno, desta molta perplessità leggere nel dossier giudiziario come la stessa vittima, prima sgozzata, poi fatta a pezzi, sia passata in qualche modo per “colpevole” secondo i giudici che l’hanno definita “disinibita”. “Una evidente giustificazione del mondo interiore dell’uomo a cui il tribunale ha persino alleggerito la pena – fa notare Gravina – anziché concentrarsi sulle legittime ragioni che probabilmente l’hanno portata ad allontanarsi dall’uomo che aveva accanto.”
Questo porta a un capovolgimento di responsabilità che prende il nome di vittimizzazione secondaria, che si verifica ogni qualvolta ci si trova di fronte a un caso di violenza sulle donne. A tal punto che, nel 2021, anche la Corte Europea dei Diritti Umani ha bacchettato il nostro paese, più volte, sottolinea Gravina. “In teoria il nostro sistema giudiziario sarebbe ben strutturato, i vulnus riguardano le valutazioni che danno i singoli e le singole giudici, che possono essere quindi influenzati per visione, formazione ed esperienza”. Secondo l’avvocata attivista sarebbe necessario un ulteriore step di consapevolezza e studio sulle dinamiche della violenza di genere per evitare di trovarci difronte a una giustizia applicata “a macchia di leopardo”.
Sempre Gravina evidenzia come “nel nostro ordinamento venga data priorità al principio della bigenitorialità, anche in situazioni di violenza domestica, come se fosse un diritto del padre continuare ad avere costanti rapporti con i figli, senza tenere conto previamente del benessere dei figli stessi, che hanno subito gravi ripercussioni da queste dinamiche disfunzionali e violente. Da ciò – ribadisce – capiamo come si debba approfondire caso per caso, valutare ogni aspetto, lasciare che siano i figli, in piena libertà, a decidere come e se vedere il padre, senza imporre orari e modalità”. Questo perché nei casi di violenza domestica, le dinamiche abusanti cambiano forma, ma non spariscono. E a subirne le ripercussioni, anche dopo i procedimenti, sono i minori oltre che le mamme. I figli e le figlie diventano spesso uno strumento per punire ancora una volta le ex partner a seguito di una separazione. Vi sono dati scientifici che catalogano i danni psicologici e le conseguenze dei traumi della violenza domestica sui minori e sulle minori in famiglia. Ma nelle aule di giustizie, così come nei luoghi deputati al monitoraggio degli incontri protetti, è difficile che si approfondiscano tali aspetti, nonostante si verifichino sistematicamente e continuino a essere generatori di dinamiche subdole e pericolose.
Un enorme gap culturale, dicevamo, oltre che politico, che non può non passare dalla formazione, necessaria non solo per gli operatori e operatrici, ma anche per magistratura e forze dell’ordine. Di fronte alla violenza le donne hanno dovuto cavarsela da sole – spiega Daniella Ceci, tra le socie fondatrici del cav Lanzino – per cui sono nate forme di sorellanza femminista che hanno portato all’emancipazione moderna. “La società tutta è condizionata da forme di mascolinità tossica. Per questo bisogna essere uniti, donne e uomini, perché anche loro, come noi donne sono afflitti dall’influenza patriarcale, anche se in maniera diversa ma complementare”. Una lotta che passa anche attraverso le parole e il linguaggio. Ecco perché forme di manipolazione linguistica che si verificano sui social e sui giornali sono pericolose e finiscono per giudicare due volte le donne vittime di violenza, colpevoli di “essersela cercata”. Sono traumi talmente forti che, stando a quanto riferiscono le operatrici del cav, quelle che riescono a venirne fuori denunciando, si percepiscono come delle sopravvissute, soprattutto dopo aver letto notizie di cronaca nera che parlano di femminicidio.
È un lavoro prezioso e vitale quello dei centri antiviolenza, in tutta Italia. Eppure, dalle Istituzioni, regionali e nazionali non sempre arriva il supporto dovuto. L’ultimo ddl approvato dal Cdm il 7 giugno 2023 contro la violenza sulle donne al momento sembra più orientato all’aumento delle pene per gli uomini aggressori e molestatori che a stanziare le risorse necessarie per consentire ai centri antiviolenza di operare efficacemente. Mentre in tutta Italia i cav svolgono un lavoro capillare, solo nel 2021 è stato offerto supporto a 19.952 donne.
La violenza di genere è un fenomeno complesso, perché affonda le sue radici nel nostro dna storico. Per questo, secondo Attanasio “serve anzitutto uno studio approfondito, insieme a professionalità consapevoli e la formazione rappresenta un tassello importante per tutti e tutte”. Anche per la stessa magistratura, per le forze dell’ordine e per gli operatori e le operatrici di settori di accoglienza o aiuto, e i Pronto soccorso dove pure il personale sanitario è chiamato a riconoscere dal primo accesso i segni di eventuali percosse. Pezzi importanti che ancora mancano, necessari a ricostruire un pensiero collettivo che troppo spesso giustifica o minimizza episodi di violenza, che il più delle volte sono l’anticamera dei femminicidi. Lavorare sulla prevenzione significa, quindi, responsabilizzare sia le donne sia gli uomini affinché si possano cogliere i segnali prima che sia troppo tardi. Anche per questo, sottolinea la presidente Attanasio “il cav Lanzino ha da poco promosso un percorso di educazione economica, volto a fornire strumenti utili per fronteggiare una delle forme più infime di manipolazione che è proprio quella economica”.
C’è poi, dicevamo, l’aspetto importante della formazione, già in tenera età. Purtroppo, sottolinea Attanasio, la scuola non ha i fondi necessari per fare ciò. Tuttavia vi sono regioni più virtuose che si aprono ai centri antiviolenza per abbattere modelli, stereotipi e pregiudizi presenti nel contesto familiare, sociale e mediatico, per una società più inclusiva del domani.
“L’educazione sessuale è un argomento difficile da comprendere appieno nel nostro paese – riflette Gravina – perché concettualmente siamo molto influenzati dal pensiero cattolico e religioso. Solo scardinando queste congetture si possono innescare delle piccole rivoluzioni, anche in ambito giudiziario. Ed è proprio questo a cui tendiamo come attiviste, diffondere piccoli cambiamenti di mentalità. Questo porterebbe le nuove generazioni a godere di frutti nuovi, in termini di umanità”.
Adrienne Rich, saggista, insegnante e poetessa femminista sosteneva che le relazioni tra donne “sono la forza più temuta, più problematica e più trasformatrice del pianeta”. Questa potenza traspare dalle parole e dall’impegno costante delle attiviste del centro antiviolenza Roberta Lanzino. Una battaglia, che è una lotta su più fronti, e che spesso vede i Cav gli unici artefici di questo cambio di paradigma sociale. “Per questo motivo – rivendica Attanasio – è stato bello ed emozionante vedere la rete Dire rappresentata dalla presidente nazionale, la cosentina Antonella Veltri sul palco dell’Ariston, invitata dalla influencer Chiara Ferragni”. Una vetrina mediatica importante da cui è stato promosso il messaggio che solo insieme questa lotta può essere sconfitta.
Insieme si vince, è vero. Uomini e donne che si tengono per mano e camminano verso un’accettazione delle differenze biologiche come unica strada da percorrere per raggiungere la piena parità nei diritti civili e sociali. Differenze di genere che diventano nuove opportunità e non più limiti per nessuno o nessuna.
Roberta Vitaro