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Carlos Patricio Fariña Oyarce: quando la dittatura uccide i bambini

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Una cama repleta de aventuras, buques piratas que surcan mares de inquietudes sueltas, sonrisas esbozada. Llega la adolescencia y cambia la mirada, cambian las emociones y el sentido, la impulsividad sobra, cambia el eje de la vida, cambia el cuerpo, cambia la voz. Una cama en una pieza pequeña, mi lugar donde fugarme del mundo y descansar, donde inventar juegos, trozos de papel como palomitas, viajes misteriosos entre las nubes en búsqueda de galaxias inexploradas. Abrazado a mi almohada, caramelo mullido, los sueños sobrepasan el asco y el terror de esta época, refugiado en el calor del hogar. La cancha de fútbol, los partidos entre amigos, la pelota que rueda en la hierba del prado o en el polvo de una cancha improvisada por la calle armando jaleo. Una cama y sábanas a olor de mi mamá, olor dulce y tranquilizador, aroma de felicidad. Manta de tejido áspero, trabaja el telar de la existencia bordando el cotidiano de múltiples dificultades, de tristeza, de terror, de colores oscuros, y por otro lado de colores vivos, de alegría y despreocupaciones, de aire fresco, de madrugadas y atardeceres pintorescos, de deseos y esperanzas. Vida que teje vida con distintos matices. La suerte se hace mofa de los desprotegidos, de los humildes, de los débiles, de los chiquillos descalzos de los suburbios y de los barrios trabajadores. Un menchón de pelo negro y liso enmarca mi rostro, mis ojos perdidos en el odio insensato instalado en los individuos por la dictadura. 13 años fue el tiempo de mi permanencia en este mundo. 13 años conociendo la maldad y ferocidad de los demás, 13 años de cabro chico ingenuo. Una cama, sueños de oro y de plata, un menchón para esconder la inocencia, sábanas y mantas cubriendo un pequeño cuerpo doblado por las violaciones sufridas, alas de palomas, flor de papel, mirada perdida.

Me llamo Carlos Patricio Fariña Oyarce, tengo 13 años y soy estudiante, soy huérfano de padre y mi mamá se cuida de mi y de mis hermanos, vive para que no nos haga falta de nada. Y yo en cambio me meto siempre en líos y le doy un montón de preocupaciones. Pero la amo esto es cierto. La amo y no hubiera querido darle el gran dolor de ser aprehendido y hecho desaparecer. Ella no se merecía tanto sufrimiento. Me arrepiento de mis actos pero era solo un niño. No quería dañar al hijo de nuestra vecina, el arma no era mía, la curiosidad me empujó a mostrarla a mis hermanitos y al otro niño. No quería disparar. Fue un accidente. Me violaron a la casa de menores donde me fui detenido y de la que me fugué. Luego los agentes llegaron a mi casa, me sacaron de la cama a golpes y me llevaron con ellos.  Nunca volvì a ver a mi mamá y a mis hermanos. Me fusilaron. Ejecutado y desaparecido a los 13 años. Me encontraron solo después de muchos años. Aún llevaba la ropa que me había puesto aquel 13 de octubre de 1973.

Te pido disculpas mamá, te pido disculpa llorando lágrimas de ausencia y castigo. Te pido perdón por mis errores, por el gran dolor que te dejé. Tu corazón partido por la midad. Tu búsqueda incansable. Mamá me ejecutaron, ¿vale tan poco la vida de un niño en esta sociedad? Mamá doce balas se clavaron en mi pequeño y frágil cuerpo enfermo. Mamá, ¿porqué existe tanta maldad? No hay respuesta de consuelo a estas preguntas mal puestas, solo pena y angustia. Perdóname, por favor. Perdona a este hijo prisionero, pasado por el cañón de un fusil y por la desaparición.  Contaba con solo 13 años de edad, era niño, era hijo y ellos, los verdugos, no tuvieron ninguna piedad de mí.

(Un letto pieno di avventure, navi pirata che solcano mari di inquietudini sciolte, sorrisi abbozzati. Arriva l’adolescenza e cambia lo sguardo, cambiano le emozioni e il significato, l’impulsività avanza, cambia l’asse della vita, cambia il corpo, cambia la voce. Un letto in una stanzetta, il mio luogo di evasione dal mondo e di riposo, dove inventare giochi, pezzi di carta come colombine, misteriosi viaggi tra le nuvole alla ricerca di galassie inesplorate. Abbracciando il mio cuscino, soffici caramelle, i sogni superano il disgusto e il terrore di questo tempo, al riparo nel calore di casa. Il campo da calcio, le partite tra amici, la palla che rotola sull’erba del prato o nella polvere di un campo improvvisato per strada facendo baccano. Un letto e lenzuola profumate come mia madre, un profumo dolce e rassicurante, un profumo di felicità. Coperta di stoffa ruvida, lavora il telaio dell’esistenza ricamando il quotidiano di molteplici difficoltà, di tristezza, di terrore, di colori scuri, e dall’altra parte di colori accesi, di gioia e spensieratezza, di aria fresca, di albe e tramonti pittoreschi, di desideri e speranze. Vita che tesse la vita con sfumature diverse. Il destino si fa beffe dei ragazzi indifesi, umili, deboli, scalzi delle periferie e dei quartieri popolari. Un ciuffo di capelli lisci e neri incornicia il mio viso, i miei occhi persi nell’odio insensato installato negli individui dalla dittatura. 13 anni è stato il tempo della mia permanenza in questo mondo. 13 anni conoscendo il male e la ferocia degli altri, 13 anni da ragazzo ingenuo. Un letto, sogni d’oro e d’argento, un ciuffo di capelli per nascondere l’innocenza, lenzuola e coperte che coprono un corpicino piegato dalle violenze subite, ali di colombe, un fiore di carta, uno sguardo smarrito.

Mi chiamo Carlos Patricio Fariña Oyarce, ho 13 anni e sono uno studente, sono orfano di padre e mia madre si prende cura di me e dei miei fratelli, vive affinché non ci manchi mai nulla. E io, invece, mi metto sempre nei guai e gli do molte preoccupazioni. Ma io la amo, questo è certo. La amo e non avrei voluto darle il grande dolore di essere catturato e fatto sparire. Non meritava così tanta sofferenza. Mi pento delle mie azioni ma ero solo un bambino. Non volevo fare del male al figlio della nostra vicina, la pistola non era mia, la curiosità mi ha spinto a mostrarla ai miei fratellini e all’altro ragazzo. Non volevo sparare. È stato un incidente. Mi hanno violato nel carcere minorile dove sono stato rinchiuso e dal quale sono scappato. Dopo gli agenti sono venuti a casa mia, mi hanno buttato giù dal letto e mi hanno portato con loro. Non ho mai più rivisto mia madre e i miei fratelli. Mi hanno sparato. Giustiziato e fatto scomparire a 13 anni. Mi hanno trovato solo dopo molti anni. Indossavo ancora i vestiti che avevo addosso quel 13 ottobre 1973.

Ti chiedo scusa mamma, ti chiedo scusa piangendo lacrime di assenza e di castigo. Mi scuso per i miei errori, per il grande dolore che ti ho lasciato. Il tuo cuore si è diviso a metà. La tua ricerca instancabile. Mamma mi hanno giustiziato, la vita di un bambino vale così poco in questa società? Mamma dodici proiettili si conficcarono nel mio piccolo e fragile corpo malato. Mamma, perché c’è così tanto male? Non c’è una risposta confortante a queste domande mal poste, solo dolore e angoscia. Scusami, per favore. Perdona questo figlio prigioniero, passato per la canna di un fucile e desaparecido. Avevo solo 13 anni, ero un bambino, ero un figlio e loro, i carnefici, non hanno avuto nessuna pietà di me.)

Carlos Patricio Fariña Oyarce, studente, 13 anni, senza alcuna militanza politica, venne arrestato il 13 ottobre 1973 nel suo domicilio del paese di La Pincoya durante un raid compiuto in quella zona da agenti dell’esercito, dei carabineros e del reparto investigativo.

La madre del piccolo, donna Josefina Oyarce, vedova Fariña, raccontò così i fatti: «Alle 9:30 il mio modesto domicilio venne circondato da numerosi militari e carabineros. Due carabineros, quattro militari e due persone in borghese irruppero in casa mia ed esigerono che consegnassi loro Carlos Patricio. Provai a dar loro spiegazioni, ma non mi ascoltarono. Due carabineros presero il bambino dal suo letto e uno di loro – della caserma di Conchalí – gli dette un forte colpo nel petto con il calcio dell’arma, per cui il piccolo cadde, lo portarono via quasi trascinandolo fino al campo da calcio. Nel campo avevano radunato le persone sospettate, i militari lasciavano andare alcuni e trattenevano altri; mi avvicinai all’ufficiale che comandava le truppe, supplicandolo che mi restituisse mio figlio perché era malato e assicurandogli che lo avrei portato al tribunale appena sarebbe guarito. L’ufficiale mi rispose di allontanarmi e che mi avrebbe restituito il bambino quando si fosse fatto grande. In una jeep militare, con due militari che gli puntavano contro le armi, si portarono via mio figlio verso una destinazione ignota. Da allora non l’ho più rivisto».

Il personale che attuò nell’operazione apparteneva al Regimiento de Infantería n.3 di San Felipe, che all’epoca era di stanza nella caserma di Quinta Normal.

Un autista di pullman amico di famiglia, al quale gli venne momentaneamente requisito il suo veicolo e ordinato di trasferire la truppa al Regimiento di stanza alla Quinta Normal, raccontò che all’interno di quella struttura si trovava prigioniero il minore Carlos Patricio Fariña, con il quale riuscì a scambiare qualche parola.

Bisogna fare presente che giorni prima il ragazzo venne accompagnato dalla madre al tribunale minorile, dopo che aveva sparato accidentalmente ad un bambino di sei anni figlio di una vicina con una pistola che gli aveva dato un ragazzo più grande, sembrerebbe un delinquente abituale. La vicina lo denunciò alle forze militari che presidiavano la zona. Il tribunale ordinò che venisse condotto al carcere minorile. In quella struttura Carlos fu vittima di abusi sessuali ma riuscì a scappare. Quando tornò a casa aveva la febbre molto alta. La vicina venendo a sapere che il bambino era ritornato a casa lo fece presente ai militari che continuavano a stazionare nella zona.

Carlos Patricio Fariña Oyarce venne fucilato, a 13 anni, i suoi resti ritrovati nel 2000 nella Comuna di Padahuel. Il ragazzino aveva ancora addosso  i vestiti con i quali uscì di casa quel 13 ottobre del 1973. Il suo corpo presentava 12 fori di proiettile.

¡NI OLVIDAMOS NI PERDONAMOS!

¡HASTA QUE LA MEMORIA SE HAGA COSTRUMBRE! Chantal Castiglione

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