Rostros sangrientos, gritos inhumanos, pesadillas de las que no me puedo despertar, que me persiguen, que preceden mis pasos lentos y vacilantes, vomitando horror, borracho por la maldad que me rodea. Una venda en el suelo echada con desprecio; una venda negra para tapar ojos valientes con la mirada fija en el verdugo, acto supremo de acusación; una venda pisoteada y vejada como símbolo del poder que pisotea los cuerpos dóciles de las víctimas, agotados por sesiones interminables de tortura y maltratos. Rostros apagados que aparecen desde pequeñas hendiduras en las celdas, siluetas efímeras pegadas a las paredes sucias, canto de mujeres dándose recíproca fuerza. Rostros tan similares al mío y al mismo tiempo tan diferentes; muecas de sufrimiento y angustia transforman los rasgos de los que se encuentran en cautiverio, hay algo en sus facciones que trascende lo humano, en sus carnes diseñado el mapa de la atrocidad. Una silla y encima puestas ropas semejantes a trapos viejos y chafados; una silla y encima el relato de una vida desnudada de la dignidad; una silla vacía puesta como testimonio del actuar de los victimarios, atestiguando la ausencia y la humanidad perdida en el abismo excavado por la dictadura. Los gritos combaten en mi cabeza con mi sentimiento de culpa, un combate que me vuelve loco, es casi como si partes de mi se fueran disgregadas. Dos “yo” conviven en un mismo cuerpo. Dos “yo”, y uno de ellos me lo cosieron tomándome el tamaño los de la DINA. Hubiera debido acostumbrarme a la locura sin sentido de esta época donde aparece como algo normal violar a otros seres humanos y eso no me fue posible. Los demás son mis hermanos, mis amigos y compañeros con los que habíamos soñado juntos un porvenir mejor, justo y solidario. Rostros sangrientos, gritos inhumanos, una venda en el suelo, sillas vacías, dos “yo” y el ruido atronador del silencio.
Me llamo Carlos Alberto Carrasco Matus, apodado “Mauro”, pese de mi corta edad viví muchas vidas en una sola: de estudiante fui militante del MAPU y luego fui milicos, fui integrante de la DINA y me obligaron a participar en sesiones de tortura y algunas veces a convertirme en torturador, fui guardia, fui detenido y sigo permaneciendo desaparecido. Pero yo no soportaba ver tanto sufrimiento, no gozaba infligiendo dolor a otros individuos, de lo contrario me sentia involucrado en sus penas. Siempre intenté ayudar a los hermanos y compañeros en el cautiverio: una palabra de consuelo, un gesto de ternura. Logré preservar un trozo de corazón aun capaz de amar el prójimo. Entregué informaciones a familiares de detenidos sobre el paradero de sus seres queridos, entregué informaciones sobre los centros de detenciones y tortura sin darme efectivamente cuenta del peligro que estaba corriendo. Me aprehendieron el 14 de marzo de 1975, en mi casa. Me encarcelaron, torturaron y me quitaron la vida a cadenazos. Sentí en mi cruda piel todo el sufrimiento del mundo, un sufrimiento pesado, insoportable.
Fui victimario y fui víctima. Fui parte del terror y fui la angustia por las sevicias recibidas. Lo cierto es que siempre mantuve intacta mi alma que estalla humanidad. La protegí, la doné. Mi alma de cabro chico en el medio de la aniquilación total de la sociedad. Mi alma sin confines, mi ser humanitario a pesar de todo. Me pasó un destino feroz, un destino que me acomuna al de los miles de chilenas y chilenos que se convertieron en aire, en viento, en semillas. Me desaparecieron y desde entonces empezaron a florecer flores rojas regadas por el pedido sinfin de verdad y justicia.
(Volti insanguinati, urla disumane, incubi dai quali non riesco a svegliarmi, che mi perseguitano, che precedono i miei passi lenti ed esitanti, vomitando orrore, ubriachi dal male che mi circonda. Una benda per terra gettata con disprezzo; una benda nera per coprire gli occhi coraggiosi che fissano il carnefice, atto supremo di accusa; una benda calpestata e umiliata come simbolo del potere che calpesta i corpi docili delle vittime, stremate da interminabili sessioni di torture e maltrattamenti. Volti spenti che emergono da piccole crepe nelle celle, sagome effimere appiccicate ai muri sporchi, canto di donne che si danno forza. Volti così simili al mio e insieme così diversi; smorfie di sofferenza e di angoscia trasformano i lineamenti di chi è in cattività, c’è qualcosa nei loro tratti che trascende l’umano, nella loro carne disegnata la mappa dell’atrocità. Una sedia e vestiti su di essa come vecchi stracci sbrindellati; una sedia e sopra di essa il racconto di una vita spogliata di dignità; una sedia vuota posta a testimonianza delle azioni dei colpevoli, a testimonianza dell’assenza e dell’umanità perduta nell’abisso scavato dalla dittatura. Le urla combattono nella mia testa con il mio senso di colpa, una lotta che mi fa impazzire, è quasi come se parti di me si fossero disintegrate. Due “io” coesistono nello stesso corpo. Due “io”, e uno di questi me lo cucirono addosso prendendo le misure quelli della DINA. Avrei dovuto abituarmi alla follia insensata di questo periodo in cui sembra normale violentare altri esseri umani e per me non è stato possibile. Gli altri sono i miei fratelli, i miei amici e compagni con i quali avevamo sognato insieme un futuro migliore, giusto e solidale. Facce insanguinate, urla disumane, una benda sul pavimento, sedie vuote, due “io” e il fragoroso rumore del silenzio.
Mi chiamo Carlos Alberto Carrasco Matus, soprannominato “Mauro”, nonostante la mia giovane età ho vissuto tante vite in una: da studente sono stato membro della MAPU e poi soldato, sono stato membro della DINA e loro mi ha costretto a partecipare a sessioni di tortura e a volte a diventare un aguzzino, sono stato guardia, mi arrestarono e continuo a rimanere desaparecido. Ma non sopportavo di vedere tanta sofferenza, non mi divertivo a infliggere dolore ad altri individui, al contrario mi sentivo coinvolto nei loro dolori. Ho sempre cercato di aiutare i fratelli e i compagni in cattività: una parola di conforto, un gesto di tenerezza. Sono riuscito a conservare un pezzo di cuore ancora capace di amare gli altri. Ho fornito informazioni ai parenti dei detenuti sul luogo in cui si trovavano i loro cari, ho fornito informazioni sui centri di detenzione e tortura senza realmente rendermi conto del pericolo che stavo correndo. Mi arrestarono il 14 marzo 1975 a casa mia. Mi hanno imprigionato, torturato e mi uccisero a colpi di catene. Ho sentito sulla mia cruda pelle tutta la sofferenza del mondo, una sofferenza pesante, insopportabile.
Sono stato un carnefice ed sono stato una vittima. Sono stato parte del terrore ed sono stato l’angoscia per il trattamento ricevuto. La verità è che ho sempre mantenuto intatta la mia anima che esplode di umanità. L’ho protetta, l’ho donata. La mia anima di ragazzo nel mezzo dell’annientamento totale della società. La mia anima senza limiti, il mio essere umanitario nonostante tutto. Mi è toccato un destino feroce, un destino che mi accomuna a quello delle migliaia di uomini e donne cileni che sono diventati aria, vento, semi. Mi hanno fatto scomparire e da allora hanno cominciato a sbocciare fiori rossi innaffiati dall’incessante richiesta di verità e giustizia.)
Carlos Alberto Carrasco Matus, 21 anni, celibe, Secondo Caporale dell’Esercito, era studente dell’Instituto Comercial n.5 del quale fu dirigente studentesco, ex militante del MAPU (Movimiento de Acción Popular Unitaria), nel 1973 gli toccò compiere il servizio militare obbligatorio, entrando come coscritto nel Regimiento de Infantería Buin. Partecipò all’azione militare realizzata contro la sollevazione dei membri del Regimiento Tacna (el Tanquetazo) contro il Governo di Unidad Popular. Visti i suoi buoni trascorsi militari venne incorporato al servizio militare regolare, raggiungendo il grado di Secondo Caporale dell’Esercito del Cile e venne incluso nella Dirección Naional de Información (DINA), ricoprendo il ruolo di guardia nel campo di prigionia di Tres Álamos, a Santiago.
Il 14 marzo 1975 alle ore 13:30, mentre era in ferie, venne arrestato in casa sua da due agenti, i quali si identificarono come funzionari della DINA e che si muovevano in un furgoncino bianco marca Chevrolet, brevetto SJ764. L’arresto avvenne davanti a sua madre e a due suoi fratelli.
Il giorno dopo un ufficiale della DINA si presentò a casa della famiglia Carrasco e sollecitò la consegna dell’arma di servizio di Carlos. Alla richiesta del padre di questo, l’ufficiale s’identificò come capo diretto della vittima ed esibì le credenziali della DINA con il numero 8869, con il nome di Aníbal Barrera, lasciò una ricevuta firmata dell’arma e delle munizioni che aveva ritirato. In un processo successivo quell’ufficiale apparve con i nomi di Aníbal Barrera e José Manzo Durán.
Il 16 marzo 1975, lo stesso ufficiale comunicò alla famiglia che Carlos Carrasco si trovava nel campo di Tres Álamos. Infine il 28 marzo comunicò che Carrasco era scappato.
Un suo amico, Luis Alejandro Fuentes Díaz, che era stato Presidente del Centro de Alumnos dell’Instituto Comercial n.5, mentre Carrasco era stato il suo Vicepresidente, venne catturato lo stesso giorno, il 14 marzo 1975 e dichiarò di essere stato insieme a lui nel centro di tortura di Villa Grimaldi.
Luis Fuentes, che lo aveva conosciuto molto bene dichiarò: «Fu così che venni a conoscenza che contro la sua volontà venne reclutato dalla DINA. Carlos venne selezionato, come tanti altri giovani, in diversi reparti militari e di polizia per formare una forza repressiva speciale. Venne portato a una struttura segreta ubicata nella zona di Las Rocas di Santo Domingo, luogo in cui vennero addestrati ai compiti che avrebbero dovuto svolgere da personale brasiliano, argentino e nordamericano. L’ermetismo e la promessa di non conversare di questi nemmeno con i familiari più stretti si trasformò in quell’istante in una questione di vita o di morte».
Continua Fuentes: «È evidente che a partire d’allora iniziò per Carlos Carrasco tutta un’esistenza inumana. Carlos descrisse diversi luoghi di detenzione e tortura clandestini, così come diverse sessioni di tortura a cui gli toccò presenziare e altre a cui fu costretto a partecipare».
E ancora: «”Mauro” (Carlos Carrasco Matus) stava molto meglio, o non si sentiva tanto male nel ruolo di guardia. Questo gli permetteva di evadere dai luoghi dove si praticavano le torture più atroci. In innumerevoli opportunità consegnò messaggi ai familiari che non conoscevano il destino dei loro “desaparecidos”. In molte occasioni regalò sigarette e porzioni di cibo extra ai prigionieri».
D’accordo alle testimonianze di molti ex prigionieri, “Mauro” costituiva un’eccezione tra le guardie visto che da sempre ebbe un’attitudine umanitaria e di aiuto verso i detenuti. Numerose le dichiarazioni di persone che vennero rinchiuse a Cuatro Álamos che si ricordavano di una guardia che chiamavano “Mauro” dai modi gentili. Anni dopo verificando le foto, vennero a conoscenza che quella giovane guardia tanto gentile era Carlos Carrasco Matus, e che gli toccò la stessa fine occorsa a molti altri, quella di essere fatto scomparire.
La DINA si rese conto che “Mauro” aiutava i prigionieri e che anche forniva racconti degli avvenimenti, nomi dei prigionieri che si trovavano in quei posti di tortura a partiti di sinistra e familiari.
Carlos Alberto Carrasco Matus, venne portato a Villa Grimaldi, stavolta come prigioniero, venne torturato brutalmente, portato con un catenaccio al collo e ai piedi nella Torre e finito a colpi di catena da Marcelo Moren Brito, che lo lasciò agonizzante in uno dei patii vicino al luogo dove venne tenuto prigioniero. Scomparve da Villa Grimaldi. Ad oggi il suo nome compare tra quello delle migliaia di persone desaparecide.
¡HASTA QUE LA MEMORIA SE HAGA COSTUMBRE!
¡HASTA ENCONTRARLOS A TODOS!
Chantal Castiglione
