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“Trent’anni fa la ‘ndrangheta sequestrava mio padre”

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Il 22 luglio 1993, trent’anni fa, Adolfo “Lollò” Cartisano spariva sequestrato nei boschi impervi dell’Aspromonte. Faceva il fotografo a Bovalino, piccolo centro locrideo, ex bomber (“il freccia del sud”) di tante squadre di Serie C negli anni ’60, e aveva “osato” denunciare le estorsioni insistenti dei clan di ’ndrangheta che controllavano quel territorio. Il suo corpo fu ritrovato soltanto 10 anni dopo, grazie alla lettera di uno dei suoi rapitori, ricevuta da Monsignor Bregantini – all’epoca vescovo di Locri-Gerace – che indicava alla famiglia Cartisano la strada per raggiungere Pietra Cappa, il monolite più grande d’Europa.

Quando si pensa alla mafia, di solito, si pensa a Cosa Nostra, alle Stragi del ’92 e ’93 dalla Sicilia al cuore dello Stato, Roma e Firenze. O alla “montagna di merda”, raccontata dal film di Marco Tullio Giordana, contro cui si batteva il giovane Peppino Impastato nella sua Cinisi. Deborah Cartisano è, suo malgrado, testimone della mattanza, mai adeguatamente denunciata, che avveniva dall’altra parte dello Stretto di Messina. Nella provincia di Reggio Calabria, tra gli anni ’70 e ’90. Dopo il ritrovamento del corpo del padre, insieme alla sua famiglia, da vent’anni organizza la marcia “I sentieri della memoria” per ricordare le vittime della ’ndrangheta. Si parte alle 9 di mattina da una radura tra i boschetti sopra San Luca e si arriva su in cima, sotto Pietra Cappa, dove 30 anni fa, appunto, furono ritrovati i resti di Lollò.

Quest’anno, a causa di un’epidemia di peste suina che ha colpito quelle zone dell’Aspromonte, al posto della marcia è stata organizzata una messa nella casa di famiglia a Bovalino. Già una volta era successo, motivo una frana che impediva di raggiungere il punto dove sorge la lapide di Lollò circondata da tante pietre colorate e messaggi di cordoglio. La camminata in montagna, immersi nella macchia mediterranea, è diventata negli anni un appuntamento sentito e partecipato. “Ricordiamo tutte le vittime innocenti di ’ndrangheta, con altri familiari, non solo della Locride, che fanno con noi il percorso – racconta Deborah, diventata da poco vicecoordinatrice dell’associazione Libera a livello regionale – e abbiamo iniziato a mettere lungo quei sentieri i nomi delle altre vittime. Impossibile metterli tutti perché sono tanti, ma è giusto ricordarne quanti più possibile. In questo modo, la camminata si è arricchita di tante storie che altrimenti non avrebbero avuto modo di essere raccontate perché non sono scritte nei libri di storia”.

Foto dalla pagina Facebook Coordinamento Libera Locride

Che tipo di uomo e cittadino era suo padre?

“Non userei la parola ‘coraggioso’ per non dare l’idea di un eroe, perché si potrebbe pensare che persone come lui siano difficili da emulare. Quando ha denunciato il pizzo sicuramente avrà avuto paura. Gli era stata già incendiata la macchina, aveva ricevuto lettere minatorie. Io all’epoca avevo dodici anni e lui, sin da subito, ha raccontato a me e i miei fratelli quello che stava accadendo. Mi ha portato persino a vedere il luogo dove, in accordo con la polizia, aveva scambiato i soldi con i taglieggiatori. Quando ricevette la lettera estorsiva, la strappò davanti ai miei occhi. Tra l’altro si era accorto che era senza francobollo. Era chiaro che anche il postino fosse complice o sapeva chi fosse il mittente. Io avevo già un esempio concreto di come fosse giusto agire e pensavo che tanti altri avrebbero fatto la stessa cosa. Crescendo mi sono resa conto che non è così e che sono poche le persone che hanno denunciato, che non si sono piegate. Questo pensiero, nel tempo, mi ha fatto apprezzare di più il cittadino che è stato mio padre”.

Ha percepito sin da subito la gravità della situazione e il pericolo a cui la sua famiglia era esposta?

“Non pienamente. Quando è arrivata la lettera e ho visto mio padre strapparla, ho pensato che si fosse risolto tutto. Mesi dopo queste intimidazioni mi sono resa conto di quello che stavamo subendo e del perché ogni volta che suonava il telefono ci fosse tensione e preoccupazione in famiglia. Però, ecco, il suo comportamento mi rassicurava, perché pensavo che lui avesse trovato il modo e la forza di affrontare la situazione”.

Quanto è ancora radicata nei nostri territori, e nei giovani, la mentalità omertosa e mafiosa?

“La cosa terribile è che questi ragazzi sembrano sempre più affascinati dalle mafie, per una questione di potere e di soldi. Ormai non si spara più come prima, c’è meno traffico di stupefacenti e quindi i ragazzini pensano che il mafioso sia colui che possiede molti beni senza il bisogno di uccidere, come accadeva prima. Così, ai loro occhi, la mafia diventa tollerabile. Anche i media contribuiscono a offrire un’immagine distorta. Per questo, noi volontari di Libera e familiari delle vittime, incontriamo, andiamo nelle scuole e raccontiamo il rovescio della medaglia, di cosa sono sporchi quei soldi. Proviamo a farli riflettere sul fatto che i mafiosi finiscono in carcere o latitanti e non possono vedere crescere i propri familiari. Quindi cosa se ne fanno di lusso e potere se non possono godersi gli affetti più cari? Tentiamo di costruire una contro narrazione della ’ndrangheta. Proviamo a far capire loro che i diritti non sono favori, che rispettare le regole non è da stupidi.

La vostra marcia coinvolge le famiglie delle vittime innocenti e sconosciute?

I ragazzi che sono nati dopo quegli anni non conoscono i sequestri di persona. Non sanno cosa è successo alla Calabria in quel periodo. Io parlo di Bovalino, il mio paese. Un giovane, che ha tra i 15 e i 16 anni, non sa proprio cosa sia stato questo territorio negli anni ’80, quando invece di alberghi pieni di turisti avevamo i corpi speciali dello Stato che facevano azioni antisequestro. Elicotteri che sorvolavano ogni giorno le nostre teste. Tutto questo non lo hanno vissuto e non possono capire come mai per noi, e non solo, questa cittadina che poteva avere un buon sviluppo economico e turistico si è fermata. Invece di andare avanti siamo tornati indietro perché abbiamo meno di quello che c’era una volta.

È stato facile coinvolgere le famiglie delle vittime nel racconto delle loro esperienze?

“Questo è un discorso delicato perché non tutti vivono il lutto in modo uguale. Noi familiari delle vittime dobbiamo vivere il nostro dolore in modo pubblico e maniera politica perché traduciamo il ricordo dei nostri cari in azioni antimafia. Nelle manifestazioni e nelle scuole. Non per tutti è facile condividere questo dolore, dando anche un messaggio positivo. Noi, famiglie di Libera, abbiamo questa “caratteristica” di essere impegnati in tal senso. Ci impegniamo a farlo e quindi siamo riusciti nel tempo a convincere gli altri familiari a fare e far capire l’importanza della testimonianza pubblica. Quindi, persone che per anni non avevano raccontato la propria storia, ora lo hanno fatto. A volte è successo per la prima volta proprio durante la marcia. È stato molto bello perché dà un senso di comunione e unità.

“I sentieri della memoria” luglio 2013, foto di Rosanna Gareffa

Si è mai domandata perché proprio Bovalino?

“Geograficamente siamo purtroppo sfortunati perché abbiamo alle spalle a pochi chilometri San Luca, Platì e Natile di Careri, il triangolo dei sequestri di persona negli anni ’80 e ‘90. Certo non voglio generalizzare perché sono paesini in cui abitano tante brave persone che sono tenute sotto scacco da pochi. La maggior parte di noi calabresi siamo gente onesta e forse facciamo poco rumore rispetto ai disonesti.

Lei ha due figli. La più grande è Gaia. Quando e come le ha raccontato di suo nonno Lollò? C’è un tempo per trasmettere ai ragazzi queste storie?

“Gaia è venuta per la prima volta a vedere il luogo del nonno quando aveva un anno e mezzo ed è cresciuta con il racconto del ‘nonno speciale’. Attraverso gli incontri di Libera i miei figli hanno appreso molte volte le storie e appena hanno potuto camminare hanno fatto la marcia. Gaia per la prima volta ha camminato il 21 marzo a Polistena, durante una delle giornate nazionali della memoria e dell’impegno. Poi a luglio dello stesso anno è venuta a Pietra Cappa. È importante che i ragazzi crescano conoscendo la verità dei fatti ed è sano che sappiano bene cosa è la ’ndrangheta per combatterne la fascinazione, i luoghi comuni e le bugie che ci vengono propinate. La ’ndrangheta è solo violenza, morte e sopraffazione. Non c’è un modo bello di raccontarla, non deve esserci un modo edulcorato. Non dobbiamo avere paura di spaventare i ragazzini che tramite internet e i social sanno già che esiste una realtà molto violenta e pericolosa intorno a loro.

Maria Francesca Astorino

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