El ruido de las ruedas que quebran la calle desolada y enferma, infligiendo heridas hondas en el asfalto, heridas desmemoriadas de lutos y tragedias silenciadas. Las ruedas devoran kilómetros, famélicas y sedientas de violencia, con su cargo de historias indecibles y marcas indelebles. Pilas de cuerpos como leña por arder en la hoguera, arrancados a la vida y a los afectos, pilas por arder en la hoguera del terrorismo de Estado. El ruido de las ruedas sembran terror, la gente se apura por encontrar refugio en su propio hogar, en los brazos amorosos de paredes amigas, en la clandestinidad coraza de protección para seguir luchando. Caravanas de muerte atravesan las ciudades, las poblaciones, los barrios, como buitres nefastos portadores de desgracias sobrevolan el territorio en búsqueda de cadáveres por desmembrar. Ruidos de ruedas, camiones y vehículos, agentes de civil y uniformados, allanamientos, fugas hacia adelante sin volverse atrás, fugas a más no poder, resistiendo, atenazando los dientes, intentando mantener vivos los deseos de la juventud. Veinte años en esa época oscura se parecen a una eternidad, los brotes aun enterrados de un rojo porvenir duermen sueños de lana y algodón en la espera de la victoria final que debería ser fulgurante y resplandeciente. La vida tan corta, huesos rotos que duelen ocultados a la vista de los demás. La normalidad dictadas por los días, las horas, los minutos y los segundos que siguen pasando álgidos y sin mostran sentimientos, caras de autómatas, pálidas y monótonas, botas, armas y ruedas escribiendo el guión del espanto; un guión largo, horroroso y tremendo; un guión como un listado de nombres borrados y olvidados; un guión prohibido y con las páginas rasgadas. El ruido de las ruedas, cuerpos como pilas de leña por arder, huesos rotos, buitres que sobrevolan las presas, brotes durmientes anhelando una primavera de liberación.
Me llamo Pedro Juan Merino Molina, tengo 20 años, soy militante de las Juventudes Comunistas. Soy tan jovencito pero tengo ideas muy claras de lo que quiero para mí y para mi País. Me desempeño en la construcción de una sociedad más justa, democratica y libre, donde quienquiera tenga garantizados los derechos fundamentales, donde la riqueza no esté en mano de una minoría sino que se vaya distribuyendo entre la multitud formada por obreros, campesinos y desprotegidos. Me apresaron el 14 de septiembre de 1974, mientras me encontraba en el hogar de Rubén Carrillo y de su esposa en Coronel. Me obligaron a subir a un vehículo y desde allí empezó mi calvario laico de violaciones, torturas, golpes, electricidad y sufrimientos inenarrables. Pasé por el Retén de Carabineros “Lo Rojas”, me llevaron a Colonia Dignidad, me trasladaron a Cuatro Álamos y de ese lugar mis rasgos se perdieron, desaparecieron para siempre.
El aire se hace cada vez más pesado, se convierte en un petrejón que aprieta mi torax dejándome sin respiro, boqueando para capturar libertad. Los suplicios caen como granizos en mi cuerpo ahora dócil y débil. Me estoy desmoronando, trozos de semblanza humana penden de mi ropa chafada y ensangrada. Pero los malditos nada pudieron contra mi alma y mi espiritu consecuente y digno. Me transformé en aquel brote durmiente que espera la lluvia bendida para que lo regue y el sol cálido para que se abra a un nuevo día, aquel día será el empiezo del cambio por lo que yo y miles de compañeras y compañeros combatieron sacrificando todo lo que teníamos. De este extremo sacrificio se echarán las bases para la fundación de un nuevo Chile.
(Il rumore delle ruote che sfondano la strada desolata e malata, infliggendo ferite profonde all’asfalto, ferite dimenticate di lutti e tragedie messe a tacere. Le ruote divorano chilometri, affamate e assetate di violenza, con il loro carico di storie indicibili e segni indelebili. Mucchi di corpi come legna da ardere sul rogo, strappati alla vita e agli affetti, mucchi da bruciare sul rogo del terrorismo di Stato. Il rumore delle ruote semina terrore, le persone si precipitano a rifugiarsi nella propria casa, nelle braccia amorevoli di mura amiche, nella clandestinità corazza di protezione per continuare a combattere. Carovane di morte attraversano le città, i paesi, i quartieri, come avvoltoi nefasti, portatori di sventure, volano sul territorio in cerca di cadaveri da smembrare. Rumori di ruote, camion e veicoli, agenti in borghese e in divisa, incursioni, fughe in avanti senza voltarsi, fughe a perdifiato, resistendo, stringendo i denti, cercando di mantenere vivi i desideri della giovinezza. Vent’anni in quell’epoca oscura sembrano un’eternità, i germogli ancora sepolti di un futuro rosso dormono sogni di lana e cotone in attesa della vittoria finale che dovrà essere folgorante e splendente. La vita così breve, ossa rotte che fanno male nascoste alla vista degli altri. La normalità dettata dai giorni, dalle ore, dai minuti e dai secondi che continuano a scorrere senza mostrare sentimenti, volti di automi, pallidi e monotoni, stivali, armi e ruote che scrivono il copione dell’orrore; una sceneggiatura lunga, orribile e tremenda; un copione come elenco di nomi cancellati e dimenticati; una sceneggiatura proibita e con pagine strappate. Il rumore delle ruote, corpi come cataste di legna da bruciare, ossa rotte, avvoltoi che volano sulle prede, germogli dormienti che anelano a una primavera di liberazione.
Mi chiamo Pedro Juan Merino Molina, ho 20 anni, faccio parte della Gioventù Comunista. Sono così giovane ma ho le idee molto chiare su cosa voglio per me e per il mio paese. Lavoro nella costruzione di una società più giusta, democratica e libera, dove a chiunque vengano garantiti i diritti fondamentali, dove la ricchezza non è nelle mani di una minoranza ma è distribuita tra la moltitudine fatta di lavoratori, contadini e indifesi. Mi hanno arrestato il 14 settembre 1974, mentre mi trovavo a casa di Rubén Carrillo e di sua moglie a Coronel. Mi hanno costretto a salire su un veicolo e da lì è iniziato il mio calvario laico di violazioni, torture, percosse, elettricità e sofferenze indicibili. Sono passato per il Retén de Carabineros “Lo Rojas”, mi hanno portato a Colonia Dignidad, mi hanno trasferito a Cuatro Álamos e da quel posto i miei lineamenti si sono persi, sono scomparsi per sempre.
L’aria diventa sempre più pesante, diventa un macigno che mi opprime il petto lasciandomi senza fiato, boccheggiando per catturare libertà. I tormenti cadono come chicchi di grandine sul mio corpo ora docile e debole. Sto cadendo a pezzi, pezzi di sembianze umane appesi ai miei vestiti sgualciti e insanguinati. Ma i dannati nulla hanno potuto contro la mia anima e il mio spirito coerente e degno. Sono diventato quel germoglio dormiente che aspetta la pioggia benedetta per annaffiarlo e il caldo sole per aprirsi a un nuovo giorno, quel giorno sarà l’inizio del cambiamento per ciò che io e migliaia di compagni e compagni abbiamo combattuto sacrificando tutto ciò che avevamo. Da questo estremo sacrificio verranno poste le basi per la fondazione di un nuovo Cile)
Pedro Juan Merino Molina, 20 anni, celibe, militante della Juventudes Comunistas (JJCC), venne sequestrato nelle seguenti circostanze: il 14 settembre 1974, attorno alle ore 3:30 di notte, un contingente di militari con berretti neri e in borghese entrarono violentemente nel domicilio di Rubén Carrillo Romero, nella città di Coronel, dove la vittima alloggiava dal febbraio del 1974 e con il quale lavorava come sarto in un laboratorio che funzionava lì stesso. Nell’abitazione si trovavano anche la moglie di Carrillo, Nely Gutiérrez Córdova e la figlia di questi di soli tre mesi. Gli uomini in divisa colpirono il padrone di casa e ammanettarono a Merino. In casa interrogarono a Nely Gutiérrez. Rubén Carrillo, intanto, venne fatto salire in una automobile particolare e iniziarono a girare per il settore, fermandosi solo per interrogarlo in merito ad alcune supposte armi; infine lo riportarono a casa dove continuava l’interrogatorio della moglie. Solo più tardi gli agenti si ritirarono dal luogo. Tra quelli vestiti da civile il testimone riconobbe i funzionari dei carabineros: sergente Rioseco e l’altro il cui cognome era Sansana.
Nel frattempo Pedro Merino venne costretto a salire su un veicolo militare e portato alle dipendenze del Retén de Carabineros “Lo Rojas”, della centrale termoelettrica di Boca Nueva, dove venne brutalmente torturato. Tra le sevizie subite: gli sommersero la testa in un sacco pieno di polveri chimiche fino a quasi affogarlo; inoltre venne costantemente minacciato di ritorsioni verso la sua famiglia. Questo lo raccontò lui stesso a un testimone di un altro centro di detenzione.
Il 26 settembre si realizzò una nuova operazione a Coronel in cui vennero arrestate molte persone che vennero caricate su un camion militare in cui si trovava già Merino in condizioni fisiche pessime. Vennero trasferiti a Colonia Dignidad.
Il tragitto lo fecero in un furgoncino con il telone, erano distesi a terra e messi uno sopra l’altro, incappucciati e con mani e piedi legati. In quella struttura li tennero legati ad alcune brandine, sempre bendati con dei sacchi e con il divieto di conversare tra di loro e con le guardie.
Testimoni raccontarono che ebbero modo di parlare con Pedro a Cuatro Álamos. Tra le altre informazioni che ricevettero i familiari vi fu che il 22 novembre del 1974 venne trasferito alla Academia de Guerra della FACH in Avenida Las Condes, luogo in cui rimase sino al 31 dicembre, quando venne preso in consegna da personale della DINA.
Successivamente si ripersero le sue tracce fino al 18 maggio 1975, quando alcune guardie di Tres Álamos informarono i familiari che Pedro Merino si trovava a Cuatro Álamos mostrando loro un documento dove figurava il suo nome. Il giorno dopo un’altra guardia negò che il giovane si trovasse in quella struttura detentiva.
Niente più seppero di lui fino al 25 luglio 1975, giorno in cui i giornali pubblicarono la notizia apparsa dapprima su un giornale brasiliano “O’Dia” di Curitiba, che raccontava di “agitatori marxisti cileni” che si scontrarono con forze di sicurezza argentine nella città di Salta, e in cui rimasero uccise cinquantanove persone, tutti membri del MIR. In quella lista apparve anche il nome di Pedro Merino Molina. Questa notizia si aggiunse ad una simile divulgata il giorno prima e che ne dava conto una pubblicazione della rivista argentina “LEA” di altri sessanta cileni morti in quel paese, anch’essi del MIR, in uno scontro tra di loro per dispute interne. A queste informazioni non venne mai data ufficialità dalle autorità cilene. Inoltre si poté stabilire che tanto il quotidiano “O’Dia” che la rivista “LEA” vennero pubblicati in quell’unica occasione.
In realtà quelle 119 persone vennero arrestate in Cile da agenti di sicurezza, portati nei centri di tortura e sterminio e fatti scomparire.
¡HONOR Y GLORIA ETERNA AL COMPAÑERO PEDRO JUAN MERINO MOLINA!
¡HASTA ENCONTRARLOS A TODOS! Chantal Castiglione